Due inglesi chiudono la stagione di Santa Cecilia
Bellissime interpretazioni di Strauss e Grieg da parte di Daniel Harding e Paul Lewis
Daniel Harding ha esordito all’Accademia di Santa Cecilia, nel 1997, a ventidue anni! Poi è tornato piuttosto saltuariamente ma evidentemente ha stabilito un ottimo feeling sia con l’orchestra che con il pubblico romano. Ed era una consolazione vedere - non solo questa volta ma anche nei concerti immediatamente precedenti - la sala nuovamente piena, seppur non pienissima, dopo settimane e mesi piuttosto grami. E finalmente anche tanti giovani.
Cominciamo dalla fine. Il pubblico è scattato in applausi entusiastici dopo Una vita d’eroe di Richard Strauss e quest’entusiasmo era pienamente giustificato da un’esecuzione possente e allo stesso tempo agile, virtuosistica e trascinante. Sono stati quarantacinque minuti di meraviglie sonore, senza un attimo di respiro per il pubblico e soprattutto per l’orchestra. A voler essere proprio pignoli, l’attacco è sembrato leggermente sfocato, forse perché l’orchestra non era ancora totalmente concentrata. E gli ottoni sono apparsi un po’ stanchi negli ultimi minuti di questa maratona.
A parte questi dettagli minimi, si è trattato di un’esecuzione di raro splendore. Harding si è tuffato senza riserve negli effetti orchestrali ottenuti con diabolica abilità da Strauss, che sono l’alfa e l’omega di questo poema sinfonico e lo rendono un capolavoro, a dispetto di un “programma” che è la manifestazione di un ego smisurato, appena temperato da una modesta quantità d’ironia (per l’esattezza, c’è molta ironia verso “gli avversari dell’Eroe” ma poca nei confronti di se stesso). E a dispetto anche della sua innegabile prolissità, che giustificherebbe la tentazione di pensare che una maggior concisione non guasterebbe: ma se si va a cercare dove si potrebbe tagliare, ci si accorge che non si rinuncerebbe ad una sola battuta.
Insomma il valore di questa musica sta tutto nelle infinite magie orchestrali di Strauss, che Harding ha fatto brillare di luce vivissima. Il momento culminante è stata la quarta parte, intitolata Il campo di battaglia dell’eroe, dieci minuti senza un attimo di tregua per l’ascoltatore (e per l’orchestra) sottoposto a un fuoco di fila di prodigi orchestrali, ottenuti da Strauss con diabolica abilità e senza risparmiare sulle smisurate sezioni degli ottoni e delle percussioni. Ma era difficile anche resistere alla seduzione dell’apparente semplicità della sesta e ultima parte (Il ritiro dal mondo e la fine dell’Eroe), la cui sublime e ascetica riflessione non sappiamo quanto sia sincera ma è sicuramente coinvolgente. Merita una citazione speciale Andrea Obiso, la ‘spalla’ dell’orchestra, che ha suonato magnificamente l’ampio solo del violino nella terza parte, La compagna dell’eroe.
Prima si era ascoltato il Concerto op. 16 per pianoforte e orchestra di Edvard Grieg, uno dei più bei concerti del periodo romantico, che però oggi è ingiustamente sottovalutato. Ma perché si dovrebbe resistere alla vivacità dei ritmi di danze popolari norvegesi - messi da Harding in maggior evidenza rispetto ad altri direttori - che si intersecano e si allacciano ai fascinosi momenti lirici e sognanti e ai repentini sbalzi d’umore, che fanno invece pensare a Schumann? È apparso chiaro che il pianista Paul Lewis ama molto questo concerto e in particolare proprio la sua romantica poesia schumanniana: bellissima la sua interpretazione dell’incantata e sospesa melodia della prima parte dell’Adagio, che alla fine del movimento ritorna e svanisce in un etereo pianissimo e ritardando. E subito dopo Lewis appariva trasformato e traboccante di forza e di ritmo nel trascinante attacco del terzo movimento. Un ottimo pianista, non un robot dalle dita d’acciaio, ma un vero interprete, giustamente applaudito con grande calore dal pubblico.
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